Ero con Mariuccia ad Asmara quando l’ambasciatore le ha commissionato una serie di quadri riguardanti l’Eritrea, ho assistito alla genesi di queste opere, ma non alla loro completezza. Era il 2009 e la Fiat Tagliero si trovava abbandonata in una delle vie principali di Asmara, strade che, dopo i primi giorni di ambientamento, non percorrevo più, in quanto i mezzi di locomozione che noi italiani abbiamo “regalato” all’Africa, sono quelli che noi non avremmo mai usato, troppo inquinanti, il fumo nero che esalava da queste carcasse stracolme di gente era per me un deterrente fortissimo e mi ha sempre accompagnato il pensiero del perché, invece di esportare le nuove tecnologie, di sfruttare il sole che lì non manca, abbiamo utilizzato l’Africa come discarica. E di fatto costringiamo i paesi in via di sviluppo a rifare tutti gli errori ambientali, che abbiamo compiuto noi, schiavizzandoli a forme di energia che non possiedono…divago…raramente quindi ripassavo per di lì e lo facevo solo per rivedere questo futuristico edificio tristemente abbandonato.
L’operazione di Mariuccia gli restituisce dignità, lo riconduce al periodo glorioso, elimina tutto ciò che lo circonda, non lo dipinge nemmeno nella sua interezza, cosicché chi non conosce questa ardita architettura ha subito la curiosità di capire come sia realmente e cosa abbia spinto l’ingegnere Giuseppe Pettazzi nel 1938 a progettarla e costruirla, seppur con grande perplessità da parte dei molti, che temevano che quelle immense ali, più di 16 metri non durassero a lungo, e che invece sono ancora lì e continuano a testimoniare sogni, voli pindarici, proiezioni verso il futuro, che oggi più che mai (Asmara è stata riconosciuta patrimonio dell’umanità dall’Unesco nel 2017) sono attuali. Mariuccia riprende le linee geometriche, immerge la testa fiera della Fiat Tagliero e una sua ala in un cielo dai mille blu che si possono ammirare nel corso delle ore del giorno e della notte.
La Fiat Tagliero si solleva, si libera, si racconta eterna, si mostra a noi e dialoga con gli uccelli di carta che la seguono nel volo. Gli uccelli però non sono liberi, sono costretti a seguire uno spago, come i nostri amici eritrei, sempre sorridenti, ma la cui sorte era legata al servizio militare di ignota durata e destinazione.
Dietro questi azzurri geometrici, il cielo ha anche linee morbide e anche il petto della Fiat Tagliero è tondo, all’angolo opposto troviamo le tonalità vibranti dei verdi e, se si osserva bene, anche degli esili rami, forse il riflesso della lontana foresta di FilFil, unico ricordo di come doveva essere il territorio eritreo prima che le continue guerre costringessero all’abbattimento degli alberi e alla desertificazione di ampie zone.
Questo quadro univa tre persone, e non era destinato a me, ma un giorno sono stata a Milano e il dipinto era ancora con Mariuccia e allora l’ho preso, ha viaggiato con me in treno, tra lo stupore dei passeggeri, scesa a Padova il vento mi ha fatto un regalo, la tela si è sollevata e io con lei, come se la Fiat Tagliero mi dicesse: “Vieni, vieni via con me, ti farò volare….”, allora l’ho portata con me a New York, in un appartamento pieno di luce al trentesimo piano e poi in un altro, del 1900, da cui si vedeva Central park…ora è ancora con me, a Roma, e chissà se si fermerà qui, di certo ha in sé tanta storia, passata, presente e futura, italiana, africana e personale.
Federica Berto